Lucchesi: “L’esonero di De Rossi è incoerente”

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Fabrizio Lucchesi, ex direttore generale della Roma, oggi al Taranto, è intervenuto alla trasmissione “Bar Forza Lupi”, su Centro Suono Sport 101.5 FM.

Qual è stata la sua prima reazione alla notizia dell’esonero di De Rossi?
“Sinceramente di stupore, ma non per l’affetto che ho per tutti i ragazzi con cui ho lavorato: ho visto crescere Daniele e gli ho fatto il primo contratto da professionista a 17 anni. Sono rimasto stupito perché è una decisione incoerente con quella che e stata la sua storia alla Roma, la sua permanenza, la sua  riconferma, insomma con tutto quello che era stato il progetto Roma.  Dopo sole 4 partite, con una squadra che non si è espressa con i risultati, ma stava cercando la propria identità. Reputo tutto ciò incoerente e anche ingiusto rispetto alle premesse di questo ciclo De Rossi. Mi è dispiaciuto tanto perché credo che non meritasse l’esonero. Oggi non vedo responsabilità da attribuirgli”.

Una società che fa un triennale a De Rossi in estate da 10 milioni di euro, di fronte alle prime difficoltà, non dovrebbe proteggere l’allenatore e in questa maniera proteggere anche la credibilità della sua scelta?
“La Roma di oggi non è una squadra composta da calciatori che garantiscono uno standard di primissimo ordine. Io non ritengo che oggi la Roma sia una squadra che possa ottenere i primi posti in classifica. È una squadra completamente rinnovata che si deve amalgamare, formare, dopo poche partite. Certamente anche De Rossi avrà sbagliato ma oggi non si è in condizioni di mandare via l’allenatore attribuendogli delle colpe. Ammesso e non concesso che le colpe siano dell’allenatore, De Rossi meritava qualche bonus in più. La scorsa stagione si è preso sulle spalle tutta la Roma del dopo Mourinho e perciò gli è stato fatto un contratto triennale. Bisognava dargli più tempo per capire se la squadra aveva delle lacune o se lui stesso aveva dei problemi. A meno che non ci fossero fattori a noi sconosciuti che hanno portato a questa decisione cosi repentina”.

C’é un’altra teoria secondo la quale l’esonero non sia legato ai risultati bensì a qualche dissidio interno fra allenatore e dirigenza.
“A prescindere se tali voci siano più o meno vere, con un allenatore come De Rossi e un contratto cosi importante, un dirigente dovrebbe supportarlo, prendendo una posizione forte. Ciò è importante anche per far rispettare le regole. Ci sono la società, l’allenatore e i giocatori e ognuno deve fare la sua parte. Se i ruoli non vengono rispettati, è la fine. Se questo è il problema, non vedo giorni felici per questa Roma”.

Alla base, probabilmente, c’è un discorso relativo alla struttura societaria, come lei ci può insegnare, per il suo mestiere, ma anche per gli studi che ha fatto a livello manageriale: perché, invece di affidarsi a dirigenti esperti,  vengono presi profili giovani che conoscono poco il calcio italiano, peraltro nemmeno direttori sportivi ma sono solo responsabili di area? Può spiegarci come è strutturata la Roma di oggi?
“La Roma ha cambiato la mia vita, ma come manager non posso che seguire modelli aziendali. Vedo bene strutture come quelle di Inter e Juventus, dove ci sono una proprietà sovrana e manager che devono lavorare bene se non vogliono essere mandati via. Ci sono poi modelli come quello della Roma dove il proprietario è anche manager. Per me è un modello un po’ rischioso perché ognuno dovrebbe fare il proprio mestiere. Se guardi nel resto del mondo, i modelli più vincenti sono quelli manageriali. Ogni mestiere richiede specificità. Così, ad esempio, il giornalista può fare il giornalista ma il proprietario della radio non può fare il giornalista. Da anni la Roma ha scelto una proprietà forte che si occupa di tutto e utilizza manager di area, che sono perlopiù scout. L’ultimo DS è stato Petrachi. Come Walter Sabatini aveva un profilo tecnico, non manageriale. Erano uomini di sport che lavoravano sul campo. All’Inter c’e anche Beppe Marotta che agisce come me nella Roma dei Sensi. All’epoca mi avvalsi della collaborazione di Franco Baldini e di Daniele Pradé. All’apice della struttura c’era Franco Sensi, come amministratore delegato Rosella Sensi (che fece esperienza prima di diventare presidente) e poi c’ero io a capo dei vari  manager di tutte le aree. Era una  piramide manageriale. Io avevo molte libertà, ma al tempo stesso dovevo confrontarmi quotidianamente con la proprietà. In caso di errore, era meno grave perché le decisioni erano più filtrate, erano decisioni prese con la testa”.

Lei ha detto che la Roma non ha una rosa di primissimo ordine. Dipende da come è stata costruita? Il mercato e stato un po’ troppo casuale?
Quando Sensi volle vincere, cosa le chiese?

“Io, Capello e il presidente seguivamo questo concetto: se si cambiano 8-9 giocatori ogni anno che cosa si può costruire? La nostra idea invece era di costruire una squadra in maniera graduale, con ottimi giocatori, ma anche campioni; ogni anno arrivavano pochi giocatori ma di qualità. Nel 2000,  anticipammo l’investimento su Batistuta di un anno, perché Franco Sensi voleva vincere lo scudetto, ma avevamo già una squadra forte e non sapevamo cosa mancava. Ci siamo consultati con Capello e abbiamo deciso di puntare su un grande attaccante. Batistuta era il più forte e giocava in Italia già da un bel po di anni. Anche  Montella segnò molto in quell’anno, quindi era veramente una bella squadra, con molti campioni e qualche ottimo giocatore. Oggi la Roma è una squadra con buoni giocatori, qualche ottimo giocatore, ma nessun campione”.

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