Ettore Viola, ex dirigente della Roma, è intervenuto alla trasmissione “Bar Forza Lupi”, su Centro Suono Sport 101.5 FM, condotta da Massimo D’Adamo:
Negli anni ’80 non c’erano presidenti stranieri, ma solo proprietà italiane. Ogni presidente incarnava lo spirito della propria squadra ed era un punto di riferimento per squadra e tifosi. Oggi, invece, c’è una vera e propria spersonalizzazione dei presidenti.
“Da tanti anni, ormai, la proprietà della Roma è opaca e ciò non attira i veri tifosi. Ora i presidenti preferiscono vivere il calcio in maniera piu indiretta”.
Si discute molto sulla scelta del prossimo allenatore della Roma. Chi vedrebbe bene sulla panchina giallorossa?
“Ci vorrebbe un allenatore carismatico, tipo Liedholm, uno capace di fare quel che vuole lui. E, sinceramente, al momento, ne vedo pochi. Io vorrei, comunque, un tecnico di prima fascia, a cui lasciare spazio per creare un progetto. E vorrei che venisse sistemata l’organizzazione societaria, con dirigenti capaci di cercare giocatori seguendo la volontà dell’allenatore e di non buttare via soldi”.
Il presidente Dino Viola ha sempre preso i migliori allenatori del momento, da Liedholm a Ottavio Bianchi, passando per Eriksson e Radice. Come faceva?
“Mio padre conosceva tutto il calcio, essendoci sempre stato dentro, ancor prima di diventare presidente. Era un uomo molto concreto e deciso: niente chiacchiere o pettegolezzi, nessuna incertezza. E, poi, è sempre stato molto corretto”.
Chi avrebbe scelto Viola tra gli allenatori di oggi?
“Credo Fabregas, per lo stile di gioco, la scelta dei giocatori più funzionali, il rapporto con i tifosi”.
Una scelta alla Eriksson?
“Il paragone ci può stare. Fabregas è anche giovane, penso che abbia più o meno la stessa età che aveva Eriksson quando arrivò a Roma”.
Possiamo dire che ai tempi di Viola era più facile attirare grandi allenatori anche perché perché la Roma, a livello mondiale, aveva più fascino di oggi?
“Assolutamente sì. Mio padre riuscì a costruire in pochi anni una squadra bella e vincente, scegliendo bravi allenatori e giocatori forti e funzionali al gioco che si voleva fare.
Inoltre, era in grado di avere un rapporto leale e sincero con tutti”.
Sulle scelte dirigenziali quanto pesava la volontà popolare?
“Molto poco. Per esempio, mio padre voleva Giordano e Manfredonia. Riuscì a prendere solo Manfredonia, che ad un certo gruppo di tifosi non piaceva. A lui, fondamentalmente, piaceva provare a vincere ed era consapevole del fatto che lasciarsi influenzare da giornalisti e tifosi poteva essere controproducente. Basti ricordare che tutti, a Roma, alla riapertura delle frontiere ai calciatori stranieri nel 1980, volevano Zico e Viola prese Falcao. Direi che, visti i risultati, ha avuto ragione”.
La sfida Roma-Juve ha perso oggi il fascino che aveva con Viola, Sensi e anche con Totti?
“Certamente la Juventus non sta brillando, c’é molta trascuratezza. Una volta, i bianconeri erano l’avversaria per antonomasia e a mio padre piaceva sfidare Agnelli ed essere sfidato a sua volta. Era la sua maggior gratificazione. Pensate che, al culmine della rivalità, era riuscito persino a convincere Giovanni Trapattoni ad allenare la Roma…”
Questa ci mancava… E quando accadde?
“In effetti, vi sto dando uno scoop. Non credo di averlo mai raccontato prima. Se non ricordo male, fu dopo Liedholm. L’ingegner Viola e il Trap, che aveva la moglie romana e romanista; si diedero appuntamento sulla via Aurelia per firmare il contratto. Era tutto fatto. Poi, la sera stessa, il mister, convinto da Giovanni Agnelli in persona a tornare sui suoi passi, chiamò mio padre e, scusandosi, chiese di annullare l’accordo, perché temeva di fare uno sgarbo alla Juve. E, cosi, non se ne fece nulla”.