De Rossi:”Vicino all’addio, entravo in campo e avevo gli occhi lucidi. Pensare che era l’ultima partita all’Olimpico..”

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Daniele De Rossi ha rilasciato un’intervista a Rivista 11. Ecco uno stralcio:

Hai parlato di ultima fase della tua carriera…
“Perché arrivi a un certo punto e pensi a quando smetterai. Ci sono quelli che vogliono smettere presto, quelli che vogliono smettere a 40 anni: io penso di voler fare una via di mezzo. Voglio chiudere con grandissima dignità. Se dovessi vedere che non c’è più una condizione accettabile e che non sto più al ritmo dei miei compagni smetto, ma non come autoflagellazione, autopunizione, semplicemente come una presa d’atto delle cose. Ma oggi mi sento forte. Mi sento ancora un calciatore vero”.

Che cos’è Ostia per De Rossi?
“Ostia è il posto dove voglio andare se mi devo sentire sicuro, mi sento tanto bene anche qui a Roma, in centro, io ci vivo tranquillamente, tanti si chiedono: come fa a vivere in centro? E me lo sono chiesto anch’io. Ma a me non mi si fila nessuno: qui è pieno di pellegrini e i romani che vivono qui ormai mi conoscono. Però Ostia per me è ancor di più, è proprio la culla. È un posto mio. Sento che mi protegge. Ci sono tornato in un momento storico importante, dopo la separazione. Sono tornato a Ostia e subito mi sono sentito a casa”.

Trenta metri in meno e nasce De Rossi…
In quel ruolo davanti alla difesa ho iniziato a giocare sempre. Prima ero un ibrido. Un giorno Ugolotti, un allenatore col quale giocavo poco, stava facendo un allenamento e disse: “I difensori vanno lì a fare questo, i centrocampisti vanno con il preparatore atletico, gli attaccanti vengono con me”. Poi si gira, mi guarda e fa: “E tu dirai ‘e adesso io ‘ndo cazzo vado?'”. Non si era capito se ero un difensore, un centrocampista, un attaccante. Mi hanno messo davanti alla difesa e non sono più uscito”.

E che cos’è Trigoria?
“È un luogo per cui provo un affetto incredibile. Pensare che un giorno non sarà più la mia quotidianità mi fa male. Magari lo sarà in altre vesti, non lo so, però se penso che potrei non vedere tutti i giorno che ne so, Roberto Porreca, il magazziniere che vedo da quando ero nel settore giovanile, o i ragazzi del bar che mi hanno fatto la colazione più volte loro che mia nonna, mia mamma e mia moglie messe insieme. Ecco, se penso a queste cose mi viene il magone. È il posto che ho frequentato di più nella mia vita. Un’estate sono andato a liberare l’armadietto perché pensavo di andare via. Su quel viale, tra via di Trigoria e via Laurentina, i pianti si sprecavano, nonostante non andassi né in guerra né a fare una cosa che non mi piaceva”.

Il rinnovo del contratto è un pensiero continuo?
“No. È una cosa che prima o poi dovrò affrontare con la società. Ma non ci penso. E ho deciso di non parlarne. Ma voglio continuare a giocare ancora un po’”.

Neanche un dubbio?
“Ci può essere un dubbio su cento. Torniamo al discorso di prima. L’altro anno mi sono stirato quattro volte, se mi fossi stirato quattro volte quest’anno, visto che gioco per passione, perché mi diverto e non perché devo arrotondare, l’avrei pure preso in considerazione, anche perché ho dei progetti miei di vita per quando smetterò”.

Che progetti sono?
“Il più semplice è che il primo anno mi piacerebbe fare tanti viaggi, girare il mondo, girarlo con i miei figli. Faccio esempi molto banali, ma viaggiare è la cosa che mi riempie di più…”.

È questo l’unico rammarico di essere rimasto a Roma? Il non aver visto altri posti?
“Sì. Non ho vissuto l’atmosfera di un altro Paese sia dentro gli stadi – penso agli stadi inglesi o a quelli spagnoli – sia fuori dagli stadi. Mi sarebbe piaciuto vedere come si vive da un’altra parte. Ho fatto sempre scelte consapevoli, anche se qualcuno le può considerare incoscienti. Invece ero conscio del fatto che erano scelte professionalmente sbagliate“.

In queste scelte hanno pesato altri valori?
“Neanche troppo. Questa scelta viene letta e vista come una cosa di grande altruismo, di amore per la maglia, di amore per i tifosi. Ma è una parte della verità. L’altra è che la mia scelta è stata molto egoista, perché io avevo proprio bisogno di giocare con la Roma. Ho il piacere fisico ed emotivo di giocare con questa maglia. Gli anni in cui sono stato lì lì per andare via, quando magari a Natale sapevo che a gennaio avrei potuto lasciare Roma, sono stati molto particolari. Di solito all’ultima partita in casa a Natale, i giocatori pensano che al fischio finale comincia un periodo di vacanza. Invece io in quei momento entravo in campo e avevo gli occhi lucidi di lacrime. Guardarsi intorno e pensare che era l’ultima partita all’Olimpico… Mi è successo e ho capito che senza questa cosa non posso stare. Vivere senza Roma sarebbe stata una cosa che mi avrebbe fatto più male del non aver vissuto un Real Madrid-Barcellona, o di non aver calcato gli stadi inglesi più belli. Almeno io la penso così, però la controprova non la potrai mai avere. Vivo un continuo saliscendi tra la voglia di vedere cose nuove e il bisogno di stare qui. Ma a 33 anni sono arrivato con la serenità sia del non aver vinto tanto sia di non aver girato tanto”.

Il paradosso è essere campione del mondo e non essere riuscito a vincere con la Roma
“È paradossale per i tempi. Perché ho vinto a 22 anni. Se vinci a 27 è un’altra cosa, a 22 invece significa iniziare con il botto e avere un certo tipo di aspettative. E’ stato velocissimo: prima l’Europeo con l’Under 21, poi la medaglia di bronzo alle Olimpiadi, poi a 22 anni boom: campione del mondo. Quella è stata forse la fregatura: non aver continuato a vincere. Forse se lo aspettavano tutti. In quei momenti avevo il telefono che scoppiava. Ogni giorno c’era una squadra nuova, ogni giorno c’era qualcuno. Mi dicevano: “Questo allenatore ti sta chiamando e ti vuole parlare, c’è questo presidente che ti fa il contratto in bianco e puoi mettere la cifra e andare quando ti pare”. Io la vivevo come una cosa bellissima, però poi alla fine c’era questo sentimento forte che mi rendeva anche abbastanza conscio del fatto che forse avrei vissuto male il distacco”.

Si è letto: “De Rossi vuole chiudere la carriera al Boca”. Perché?
“Non ho mai detto che vorrei chiudere la carriera al Boca, ho detto che avrei desiderato giocare al Boca Juniors. Magari anche a vent’anni, o a trenta, o a trentacinque. È uno dei miei desideri, lo è sempre stato. Mi piacerebbe essere in campo in un Boca-River alla Bombonera. E’ una cosa che potrebbe mancarmi, tanto quanto mi potrebbe mancare giocare una finale di Champions o un Real-Barcellona. E forse le ultime due, se avessi fatto scelte diverse, le avrei potute giocare. Ma il Boca è un’altra cosa: lo stadio mi leva la vita, quando lo vedo. E’ il più bello del mondo. Mi sono appassionato alla Bombonera quando ero piccolo: guardavo i video dei gol, delle esultanze. Incredibile. E poi Maradona (…)”.

Mai pensato: quanto è complicato stare a Roma per un calciatore? Soprattutto per un calciatore di Roma…
“Roma ti offre molte cose belle, ma ti offre anche molti momenti in cui pensi: chi me l’ha fatto fare? Chi ti dice che non c’ha mai pensato, dice una bugia. Una grande bugia, perché Roma quei momenti li offre eccome. E a volte te li sei meritati (…)”.

Zeman invece teneva in panchina solo De Rossi
“C’era un giocatore che ritengo bravo, che sta facendo la sua buona carriera, Tachtsidis, che piaceva particolarmente a Zeman e lo riteneva più giusto di me per il suo gioco. Ho sempre trovato allenatori che mi hanno fatto giocare titolare, anche in condizioni precarie, uno a cui piacevo meno l’avrei dovuto trovare. È statistica. Non credo ci sia altro. Non credo che Zeman sia un disonesto. La sua carriera e la sua storia parlano per lui, ha dimostrato spesso di avere una grande rettitudine, non vedo perché con me l’avrebbe dovuta compromettere. Per me non è stato un periodo facile e credo non lo sia stato neanche per lui”.

Perché?
“Ha dovuto gestire la situazione ambientale. Ogni conferenza gli chiedevano: perché non gioca De Rossi? Perché gli preferisci Tachtsidis? Lui ogni tanto ha fatto qualche uscita provocatoria. Diceva: “Chi se lo compra De Rossi? Dove va? Cho lo vuole? Ha 30 anni, non lo prende nessuno”. Io per un anno sono sempre stato zitto, non ho mai alzato un sopracciglio. Magari speravo che ci fosse un po’ più di cameratismo. Ok, non ti piace come gioco? Io mi alleno, mi impegno. non parlo, ti aiuto con la squadra, ma tu non mi attacchi nelle interviste. Mi rendo conto però che è un casino essere un allenatore. E’ l’unico che è costretto a parlare sempre: prima delle partite, dopo le partite, un paio di volte durante la settimana, ogni può essere che un colpo ti parte (…)”.

Com’è stato il caso Totti-Spalletti vissuto dall’interno?
“Era una situazione molto particolare. La pressione era enorme, come se fosse l’unico argomento possibile. La cosa che ho trovato sbagliata, sia nell’opinione pubblica, sia nella stampa, sia nel tifoso, non è tanto lo schierarsi, quanto il desiderio di schierarsi, la voglia di dire qualcosa a ogni costo. Io non sono mai intervenuto perché è come quando ti chiedono: ha ragione mamma o papà? Io un’opinione ce l’avevo, ce l’ho ancora, ma sarebbe stata solo una voce in più tra le tante, tre le troppe. A chi avrebbe giovato? (…)”

Com’è il rapporto con Totti?
“Io mi sono permesso in questi 16 anni un lusso che a Roma si sono permessi in pochi: viverlo non solo come un idolo. Stare tutti i giorni con lui ti porta a vivere come una cosa normale l’essere accanto a un calciatore che non è normale- Perché quello che ha fatto non è normale, perché è un fenomeno e lo è stato per 25 anni. Rimane l’infervoramento che ho sempre avuto per il calciatore, ma l’ho sempre trattato come un mio compagno qualunque, come trattavo Tonetto, Cassetti, Vucinic per dire quelli a cui mi sono affezionato particolarmente. Come trattavo Pirlo in nazionale. Non perché il livello del calciatore fosse lo stesso, ma perché quando diventa un amico, il fatto che sia il più forte calciatore della storia della Roma, fra i cinque calciatori più forti della storia del calcio italiano – e secondo me, per certi versi, il più forte di tutti – non tocca la mia percezione di lui. Quindi, quando dovevo proteggerlo da un avversario, lo proteggevo, quando ci dovevo discutere ci ho discusso, quando qualcosa non mi stava bene gliel’ho fatto notare, quando dovevo mostrargli affetto glielo mostravo, e quando dovevo dire che era un coglione gliel’ho detto. Un lusso che a Roma non si permette nessuno. Perché qui, se dici che Totti ha sbagliato ad allacciarsi le scarpe, è lesa maestà”.

Ma quanto è difficile, se è difficile, essere l’erede di Totti per quello che è lui per Roma e per il fatto che gioca ancora?
“È facilissimo. Smette, non smette, la fascia da capitano, sono tutti discorsi che a me non interessano. Io credo che si possa essere capitano anche senza indossare la fascia. E, soprattutto, puoi essere un grande capitano anche da vice. Ma, al di là di questo, è stato facilissimo perché non c’è mai stato dualismo. Forse si sarebbe potuto creare se avessimo avuto lo stesso ruolo. Si possono fare paragoni al massimo sul resto, sul modo di stare in campo, sull’atteggiamento, sul carattere. Ma per quello che calcisticamente gli viene riconosciuto in tutto il mondo, Francesco è irraggiungibile. Dal punto di vista del cuore, della gente, lui è unico. E’ amato da tutti perché ha fatto 300 gol. Io non sono amato da tutti perché non sono capace di fare 300 gol. Poi il mio carattere mi porta a dire ogni tanto qualcosa che non pisce, a dire quello che penso e che magari è fuori posto (…)”.

Luis Enrique
“Per lui ho avuto una vera passione. Ma ha fatto appassionare a un tipo di calcio diverso. Il primo giorno di allenamento ha tirato un pallone in aria, noi gli siamo andati tutti addosso, come i bambini delle scuole calcio, e da lì ha fatto un lavoro enorme, tattico e di impostazione generale. Ha allenato una squadra meno forte di quelle che ha allenato dopo e meno forte anche di altre Roma. Poi ha detto: Tratterò i calciatori più importanti come quelli meno importanti. Ed essere stato uno di quei calciatori importanti che ha punito, l’ha solo fatto diventare più interessante ai miei occhi”.

Garcia
“Ha preso una squadra e una città in difficoltà e le ha rimesse in carreggiata. Ha fatto un lavoro mostruoso. Mi spiace che di lui si ricordi solo l’ultimo periodo. All’inizio ci ha fatto giocare veramente bene e ha creato un grande gruppo”.

Spalletti
“È stato l’allenatore che mi ha condizionato di più. Quello che ho avuto per più tempo. Mi ha preso che ero giovanissimo. Oggi mi rendo conto che quando lo sento parlare di un giocatore, di una situazione, di un movimento, io ho pensato la stessa cosa un’ora prima. Ho cominciato a vedere il calcio con gli occhi di questo allenatore. Ed è un bel vedere. Al di là di che cosa farò io, al di là che a volte ha un carattere difficile, la Roma dovrebbe fare di tutto per trattenerlo perché sarà più forte (…)”.

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