De Rossi alla rivista dell’Aic “Il Calciatore”: “Vorrei rigiocare la gara con la Sampdoria che ci costò lo Scudetto e la finale degli Europei del 2012.”

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Il capitano giallorosso ha rilasciato una lunga intervista all’interno della rivista “Il Calciatore” dell’AIC. Ha parlato dei suoi inizi, dei trascorsi in nazionale e del suo passato e presente nella Roma:

Sai dirmi perché hai scelto il calcio fin da bambino?
No, non so dirti perché il calcio quella volta, proprio da bambino, certo ha voluto dire che c’era mio padre che faceva allora il calciatore, normale che lo seguissi. E poi il pallone c’era sempre anche tra i miei amici, sempre lo stesso il percorso. Parlo di Ostia, io sono di lì, allora non era ancora una grande città com’è adesso. Un posto quello che mi ha accompagnato, che mi è rimasto dentro, non è che si andasse spesso poi a Roma. Per tutto quello che è venuto fuori adesso, mi dispiace proprio tanto. Io non ci vivo più, ma ci vivono i miei e magari potrei passare per omertoso, per quello che non vuole dire, ma certo non me ne sono mai reso conto del tutto. Chiaro, problemi ce n’erano, non per niente è stata commissariata, però non posso non pensare che me ne sarei dovuto almeno accorgere se tutto si era ridotto come adesso è saltato fuori, no? A Ostia ci sono rimasto fin che avevo 21 anni e ci sono poi tornato per un po’ dopo che mi ero separato. Ora abito in centro a Roma e mi piace proprio dove sto. Lo dico sempre anche ai miei compagni, è davvero un peccato non approfittare di avere tutto quello che puoi avere lì in centro, quanto bello è, lì sì sei proprio… a Roma. Mi rendo conto che non è facile, che di gente ce n’è tanta e dunque ci sono più possibilità che ti lascino meno stare eccetera, però quanto si perdono.

Dove eri solito giocare da piccolo?
Lì a Ostia non è poi che ci fossero tanti campetti, anzi. Però avevamo le pinete, così le porte le facevamo con dei pezzi di tronchi o magari con un albero e l’altro palo era uno zaino. Non sempre avevamo il pallone, ma andava bene pure una pigna, ricoperta di carta e con un po’ di scotch, così non ci facevamo male ai piedi. Era quello il nostro stadio, poco lontano da scuola, da mia nonna, là giocavamo. E poi c’è il mare, così c’era la spiaggia, quando non era stagione giocavamo lì e così facevamo ‘beach soccer’, come si dice adesso. Con la scuola calcio ho cominciato che avevo sui 5-6 anni, con l’Ostiamare; un anno siamo stati poi a Sarzana, c’era mio padre che era andato in C con la Sarzanese, anche lì ho fatto il settore giovanile, per tornare poi a Ostia (mio padre aveva deciso di andarci, facevamo allora la Serie D). Lo capisco meglio adesso quanto abbia voluto dire aver cominciato avendo dei bravi insegnanti, che hanno dedicato tempo a far tecnica, a farci proprio giocare. Non come tanti di adesso che parlano subito ai bambini di diagonali e raddoppi e vogliono vincere per portare la targa al bar. È stato dunque per me un buon avvio, con gente perbene: sono stati loro che mi hanno fatto così benvolere quel che facevo e chissà cosa sarebbe successo se magari ne avessi incontrato altri, diversi, che non mi avessero stimolato, a continuare, chissà. Tra l’altro l’Ostiamare a livello giovanile ha sempre avuto una fama di qualità, credo l’abbia tutt’ora.

Come sei finito nella Roma?
Come detto, con la Sarzanese ci sono stato un anno e anche lì mi sono trovato bene e quel che più ricordo è come fosse educata la gente, tutte persone a modo, questo mi è rimasto impresso. Avevo poi nove anni quando mi prese la Roma, ma io non ci andai, non volli farlo, quel che volevo era stare con i miei amici, questo è un qualcosa che ancora ho, non se n’è andato. L’anno dopo però ci volevo andare, ma fu la Roma che quella volta decise di non prendermi e ci stetti male. Guarda che giocavo proprio in tutto un altro modo di adesso, un po’ un trequartista, quello che aveva dei colpi insomma, il 9 di maglia. Alla Roma così andai che avevo 12 anni, anche un po’ spaventato, ma mi intrigava questa cosa. A spiegarmi un po’ le cose ci pensò mio padre, a dirmi che lì dov’ero ero il più forte, ma che alla Roma li avrei trovati tutti forti, che mi preparassi. Sono così andato, pronto ad accettare quel che veniva, non avevo né sogni, né pretese, tipo io in panchina non ci voglio stare eccetera. In effetti giocavo poco, specie i primi anni. Ricordo che in quel torneo importante nemmeno venivo convocato e questa è stata una parte dolorosa; mio padre mi diceva di non mollare, io me ne sarei anche tornato all’Ostiamare, ma c’era anche il fatto che mi trovavo bene con i miei compagnetti della Roma.

Che cosa facevi quando andavi a scuola durante il pomeriggio?
La scuola la facevo a Ostia e dato che i miei lavoravano a pranzo andavo sempre da mia nonna che mi dava pure un panino per dopo l’allenamento. A turno c’erano dei genitori a portarci e questo è andato avanti sino a 18-19 anni, avevo già un contrattino, che era comunque già più di quel che uno prende lavorando normalmente, dai. Ho preso la patente e la mia prima macchina, una Classe A, quanto l’ho amata e mi fa un po’ specie adesso pensare che era col cambio manuale. Ricordo che si andava a vedere le partite al Flaminio, lo stavano rifacendo l’Olimpico. Mi piaceva andarci, mi appassionava: così vicini al campo, vederli proprio lì, me li ricordo ancora, specie Giannini e Völler, il mio idolo.

Il sacrificio più grande?
Per me è sempre stato iniziare la preparazione estiva, sì. Ma come, proprio in agosto quando è il momento che più si vive a Ostia, l’estate! Con gli amici in spiaggia, i gavettoni, che bello. No, quella per dire della discoteca non è una questione che mi abbia proprio pesato. E non tanto perché dovevo giocare, quanto perché non ci ho mai trovato chissà che lì dentro; certo ci andavo e ci sono andato ancora, ma non è insomma un qualcosa che mai mi abbia lasciato molto.

Eri uno studente modello?
No, a scuola non ero bravo, ma non ero nemmeno di quelli che dicono che fa schifo. Tutto sommato mi annoiavo anche se c’era qualcosa che mi piaceva di più. Avevo scelto un liceo linguistico, anche se adesso vedo che era stata una buona scelta, a quanto servono le lingue, mentre l’algebra, per dire, non vedevo come mi potesse servire. Però non sono riuscito a finire, in prima superiore sono stato anche bocciato, poi ho continuato ma a 16-17 anni ero già con la prima squadra, troppe assenze. Ho provato pure con una scuola privata, ma anche lì mi hanno fatto notare che non c’ero quasi mai e così ho proprio smesso. Questo fatto di non avere il diploma è un fatto che ha cominciato a darmi fastidio nel tempo, non subito e ora un po’ mi rode. Ricordo che a casa quella mia bocciatura fu una specie di dramma, specie per mio padre. Lui, sempre il primo a starmi vicino quando mi capita di fare una stupidata, ci rimase proprio malissimo.

Sei sempre stato molto autocritico…
È stato verso gli Allievi nazionali che ho cominciato a pensare al calcio in modo diverso. Di mio sono molto autocritico, vedevo tanti altri che per me avevano molte più qualità. Ricordo, che so, Pepe, Aquilani, Bovo, D’Agostino. Però è stato allora che mi sviluppai fisicamente, mi cambiarono pure ruolo e iniziai a crescere come calciatore. Cominciai così a pensare che forse ci sarei potuto stare anche io, ma non certo per quel che poi è capitato. Già una carriera come mio padre in Serie C mi pareva tanto, arrivare a guadagnarci giocando era il massimo e insomma le mie aspettative erano più basse di quella che è stata poi la realtà. Le cose sono cambiate poco alla volta, giusto allenandomi con loro e guarda che erano quelli della stagione dopo lo Scudetto, lì in mezzo ce n’erano proprio di bravi, ma non mi sono fatto problemi, l’ho presa di petto, diciamo, con personalità. A volte può essere sì un limite, ma di mio sono pure un testardo, anche se gioco a tresette voglio vincere poi, fin da piccolo, mai ho avuto paura di giocare con tutti, anche con i più grandi.

Ci racconti la vicenda sul pullman dopo Italia-Svezia?
Sul pullman della Svezia le cose sono andate così. Sotto lì allo stadio, nei parcheggi: con degli amici avevamo organizzato qualcosa, si pensava di festeggiare e invece niente, ero insomma poco lontano dal loro pullman, un in bocca al lupo con chi di loro passava, queste cose qui; poi un altro, all’andata ci eravamo scambiati qualche legnata, qualche parola di troppo e sai com’è, scusa di qui e scusa di là, mi sono avvicinato e sono salito: ho fatto loro i complimenti. E non c’è alcuna medaglia al valore, no.

Ci sono delle partite che non dimentichi?
Beh, di partite che non dimentico ne avrei parecchie, ma se penso a questa mia professione, proprio per il rispetto che ci vuole, allora penso alla Nazionale, giocarci penso sia il sogno di tutti. Potrei così dirti dell’esordio, ma io con quella maglia – e ne avevo 22 di anni – sono pure arrivato a giocare la finale di un Mondiale e pure vincerla! Il fotogramma che più mi è rimasto impresso, ancora adesso a ripensarci mi vengono i brividi, sono stati tutti quei flash dei telefonini accesi, lì dietro la porta mentre andavo a tirare il mio rigore. Stessa scena con tutti gli altri, ma proprio m’è rimasta dentro quella scena, tipo quella che capita di vedere a dei concerti.

C’è qualche partita che vorresti rigiocare?
Di partite che vorrei rigiocare te ne dico un paio, la prima è quella contro la Sampdoria, all’Olimpico, c’era Ranieri come allenatore (stagione 2009/2010; ndr). Alla fine del campionato mancavano poche partite, in classifica eravamo in testa, davanti all’Inter che quell’anno era veramente una squadra incredibile. Quel giorno vincevamo pure 1 a 0, partite di quelle che se giochi venti volte, diciannove le vinci, ma finisce che capita e quella volta perdemmo 2 a 1. Loro ci passarono davanti e arrivammo secondi, a due punti. L’altra è la finale dell’Europeo 2012. Quando ci penso, allora mi immagino di essere a posto, di essere sano, di poter… giocare. Non so, tra noi nel gruppo si era creato qualcosa di magico e non dico certo che con me avremmo vinto – ero fuori, infortunato – però quanto avrei pagato per essere lì con i compagni a dare una mano.

Un cartellino rosso più giusto degli altri?
Un rosso che magari ho meritato di più? In effetti ne ho presi diversi di rossi e devo dire quasi sempre meritati, sono proprio pochi quelli che ci potevano anche non esserci. Poi dipende: un conto è un fallo di reazione, lì al massimo hai l’1% di scusanti; poi c’è quello che è lanciato a rete, la doppia ammonizione… dai, me li sono meritati tutti o quasi, sì.

Qual è stato il tuo gol più bello?
Il gol più bello che ho fatto non è poi un gran ricordo, è capitato contro il Manchester United, quella partita l’abbiamo persa per 7 a 1. Pensa la soddisfazione, si perdeva per 6 a 0 ed è venuto fuori questo gol meraviglioso: cross di Francesco (Totti; ndr), io di spalle girata al volo e gol. Bellissimo, ma vuoi mettere? Un altro molto bello è stato quello contro il Giappone, alle Olimpiadi (Atene 2004; ndr): su rovesciata.

Quale stadio ti ha colpito di più nella tua carriera? Ce n’è uno che ti manca?
Lo stadio più bello per me continua ad essere San Siro, nemmeno il Bernabeu, nemmeno il Camp Nou, è sempre stato quello lì di Milano che più mi ha emozionato. Certo, ora magari meno, dai e dai mi capita di giocarci da un bel po’, però sin da piccolo San Siro mi suggestionava, così gigantesco, era quello insomma per me “lo” stadio. Sarà poi quel che sarà, però capita pure che ogni volta che gioco lì dentro, faccio sempre buone partite. Lo stadio che invece ancora mi manca è quello del Liverpool, sicuro. Io sono uno che va molto a pelle, a brividi e così, quando penso a uno stadio, non penso tanto alla struttura, a come è fatto eccetera. Penso invece alla tifoseria, all’atmosfera, al “sonoro”. Mi piacciono gli stadi come per esempio il Bentegodi, dove i tifosi cantano dall’inizio alla fine, anche se perdono. Ecco perché vorrei tanto andarci all’Anfield Road… ricordo all’Hampden Park a Glasgow, contro la Scozia, il canto del loro inno o i 90′ lì a cantare degli irlandesi a Dublino. Questo è insomma quello a cui prima penso parlando di stadi ed è per questo che un altro desiderio è quello di giocare una volta nella Bombonera (lo stadio del Boca Juniors, a Buenos Aires; ndr), peccato che sono avanti con gli anni, non so se ce la farò.

Sei un ragazzo serio, ma qual è il tuo punto debole?
Oggi, a 34 anni, mi considero e so di essere un serissimo, è così, tanto che se fossi un mister, ne vorrei avere uno come me in squadra. Anche serio, come tu dici; il mio punto debole è sempre stato il cibo: ma come, la domenica giochi, vai bene, ma perché non mangiare un po’ di più, qualcosa d’altro? E invece no, non basta, non basta mai e lo dico sempre a tutti i miei compagni. Si deve continuare, perché se si arriva a fare ancora meglio, magari avremmo qualche punto in più in classifica, quella famosa partita la potevamo magari vincere e avrebbe fatto grande differenza, questa insomma la linea. Ora come ora, arrivo sempre ben presto al campo, faccio le terapie, le cose che devo fare, sto attento al mangiare e tutto il resto. Ricordo il tempo in cui in effetti mi vedevo e sentivo meno forte, non sapevo come fare e l’ho capita via via negli anni questa cosa qui. Così rivado a Francesco Rocca, a quel che lui mi ha detto pur essendo “un pazzo”, il suo di esempio. Lui, personaggio rigido, che ha un suo immaginario di calciatore-robot, instancabile, credo proprio che sarà dura che lui lo possa trovare. Allenarsi con lui voleva sempre e comunque dire che finivi con la lingua per terra, però il tutto dando sempre l’esempio, quel che chiedeva lo faceva anche lui. Era rigido e duro, ma li ha sempre protetti i suoi calciatori. Ricordo quando allenava l’Under 20, così ci si vedeva di tanto in tanto… mi ha aiutato, mi ha permesso di fare annate ad alti livelli.

Quella gomitata al Mondiale 2006?
Male e tanto ci sono stato i primi giorni, non me le aspettavo addirittura quattro giornate di squalifica. Avevo fatto una cosa grave, certo, però per me esagerarono, quella per me fu anche una dimostrazione di forza da parte della Fifa, di solito se ne danno due, no? Quattro partite voleva dire che nel caso mi sarebbe rimasta giusto la finale e non era… poco. I primi giorni Lippi nemmeno mi parlò, fu duro ma anche paterno: subito dopo la semifinale, venne lì a dirmi di prepararmi, che mi avrebbe fatto giocare. Lo stesso fece poi Peruzzi, che faceva un po’ da tramite con tutti, può darsi non dall’inizio, ma… Già dopo i quarti avevo comunque “riacceso i motori” e visto che le possibilità me le davano, c’era un motivo in più per prepararmi per bene (entrato al 61′ proprio al posto di Totti, Daniele segnò poi ai rigori il terzo della serie; ndr).

Sei mai arrivato alle mani con qualche compagno di squadra?
No, non sono un capitano di quelli, per dire, che attaccano al muro dei compagni, anche se magari ci vorrebbe, dai. No, non sono così. Sono in sostanza molto amicone con tutti e mi piace dirti che percepisco che mi vogliono bene, che mi rispettano. Vedo che anche i ragazzi giovani mi apprezzano, tra noi il rapporto è buono, cerco sempre di scherzare, non mi metto mai su un gradino diverso. Nemmeno sono uno che si mette lì davanti a tirare, anche se ormai certe cose non si fanno più, altro che giri di campo. Ecco però, quando magari vedo che un partitella va avanti così così, che mi metto lì a fare pressing, magari fatto male, ma la vedo la reazione degli altri: con l’esempio si riesce a trascinare. Sono il capitano, sì e mi sento tale, ma non però il primo della classe.

Cos’è adesso il divertimento? Per forza deve essere legato ai tre punti?
Mah, certo che vincere è bello, ancor più in un ambiente come il nostro, altrimenti – dall’altra parte – puoi bene immaginare quanto ti rompano le scatole, il mister arrabbiato eccetera, eccetera. Ma per me il divertimento è proprio quel che faccio, il mio quotidiano. Quando ero più giovane mi lamentavo magari dei ritiri, che mi rompevano, ma ora penso piuttosto al fatto di vivere lo spogliatoio: sì, mi piace la vita che faccio. D’accordo, è faticosa con i ritiri, lo star via dalla famiglia e il resto, ma confesso che mi diverte e so già che soffrirò quando me ne staccherò. Al dopo così ci penso, non voglio arrivare a svegliarmi una mattina e ritrovarmi a dirmi, che faccio adesso? Allora ci penso, senza togliere spazio e forze: qual è la cosa più vicina a me, dopo il calcio? Intanto, per cominciare, dico che a me non piace la cravatta, mi ci vedo meglio ancora con gli scarpini ai piedi. Allenare magari? Forse, credo che fare il secondo potrebbe essere un qualcosa che mi andrebbe di fare, che so, con Di Francesco o Spalletti, o altri allenatori con cui mi sono trovato bene. Così sì, stare ancora sul campo e vivere lo spogliatoio, niente giacca e cravatta.

Com’è il rapporto tra voi calciatori? Vi portare rispetto?
Sì, tra noi calciatori il rispetto c’è, sappiamo chi siamo ma poi i problemi iniziano quando di mezzo c’è il pallone, il campionato. Penso qui allora al football americano, a come lì si placcano, si sfondano, si distruggono ma poi alla fine li vedi che si abbracciano, non ci sono polemiche, nemmeno sulla tecnologia, su quello che è un po’ il loro Var… qui le cose continuiamo a vederle ciascuno pro domo sua. Con tutte le telecamere che ci sono, piano piano diventeremo perfetti e certo si vedono gesti che prima non si vedevano. Errori ne ho fatti, anche qui di recente e arrivare a smettere di fare gesti come i miei, è solo un bene.

Cosa non ti piace dello spogliatoio “moderno”?
Quel che mi piace meno adesso sono le abitudini che abbiamo preso. Ora con i social ogni cosa che fai può arrivare subito a milioni di persone, se uno ha una capigliatura un po’ particolare la posta in rete e non so, non capisco, mi pare sia più un apparire piuttosto quel che si è. Per forza siamo dei personaggi, ma ora ti ritrovi nello spogliatoio con i telefonini in mano, ognuno così per conto suo, c’era un qualcosa di più cameratesco prima. E guarda che non è una questione di età, anche noi vecchi si diventa in pratica schiavi, la foto con Instagram eccetera eccetera, tutte cose che sono distanti da quel che sono. Uno si fa male, allora gli mandi una foto o gli twitti qualcosa? Ma perché – mi domando – non gli telefoni? Non lo vai a trovare?.

Su Tommasi…
Dai, è il solito disco: i soldi, le macchine grandi, le veline eccetera. Che vuoi, dipende da chi prendi e dato che ci sono penso al nostro presidente dell’Associazione, a Tommasi, ex mio compagno; lui, sindacalista, uomo di chiesa, uomo di valori. Chiaro, prendi un ragazzo giovane, prende quello che prende, mica facile sapersi gestire e quanti giudizi. Ma te ne potrei dire cento di nomi di calciatori che sanno parlare di tutto, che si interessano di tutto, che fanno una vita normalissima. Chiaro che non viviamo la stessa vita dei nostri coetanei, siamo sicuramente dei privilegiati, ma il fatto che posso prendere quel che prendo non mi fa arrossire, non mi imbarazza: sono fortunato e allora? Comunque sia, i macchinoni, le veline e tutte ste cose non sono i miei punti di arrivo, no. E poi, a dirla tutta, se sei giovane e c’è una bella ragazza che ti sorride, ma perché non avvicinarla? Idem per una macchina importante o la vacanza a Montecarlo o Dubai, ognuno vive la sua di vita, come vuole. Non trovo vergognosa la vacanza alle Maldive e se un ragazzo si vuol fare la Ferrari, perché averne di dubbi? L’importante è sapere di poter vivere anche con una macchina normale.

L’atmosfera allo stadio la senti?
Mah, l’atmosfera lì in campo, se mai noi potessimo fare qualcosa se ci fosse casino… intanto ti assicuro che tanti non sentono proprio nulla, così concentrati sulla partita; io invece di queste cose mi capita un po’ di accorgermene… l’esempio possiamo e dobbiamo darlo, è vero, ma non sono io che devo dare l’esempio a quei ragazzi, non è colpa nostra per quel che possono fare e fanno come ai miei tempi non era colpa di Giannini o di Völler. È un problema dei genitori, non è nostro. Quel che per me è cambiato, è il modo in cui viene vissuto adesso lo stadio. A parte l’affluenza c’è meno gente, a me pare che fosse più focoso prima, per me era meglio. Quando perdevi, ci potevano anche essere reazioni brutte e fastidiose, ma perché c’era un amore che accecava. Ora sbagli un passaggio e allora si tirano subito fuori i soldi che prendi e tutto quello poi che ti ritrovi sui giornali. Ecco, a me piacerebbe che si tornasse un po’ indietro, a quell’amore che accecava.

Perché il numero 16 di maglia?
C’entra pure Roy Keane, lui è stato uno dei miei idoli, quello che più mi ha impressionato, assieme a Guardiola e Davis, l’olandese della Juve. Quel loro modo di vivere il calcio, la partita, lo spirito che dimostravano… va bene, magari allora non c’era la Var, bisogna stare tanto più attenti adesso. Pensa che con Keane sono pure arrivato a chiedergli una foto, prima e unica volta per me, lui allora faceva il secondo dell’Irlanda. Per un altro po’ c’entra poi una delle mie figlie, è nata un 16.

Senti pressione prima di una partita?
Una volta le sentivo di più le partite, ora quel che più sento è la responsabilità che avverto addosso, soprattutto proprio per l’amore che io ho per questa mia squadra, per la Roma: qualcosa di importante. No, alle scaramanzie non ci credo più, chissà quante Champions avrei vinto se mi avessero davvero portato al risultato, magari funzionassero. Quando poi mi faccio male e devo stare fermo, divento intrattabile, poco da fare, praticamente ingestibile. Allora lì a lavorare più di quando sto bene: vorrei rientrare subito e così mi sono capitate delle ricadute, non è che mi sappia insomma troppo aiutare. Le pagelle le leggevo da giovane, ora molto meno e non lo dico per snobismo. Mi capita ancora di darci un’occhiata, magari ancora posso bruciare certi giudizi, un po’ te l’avvelenano sempre il sangue, sia per un 8 che non meriti o per un 5 che poteva essere un 6. Mi rendo conto che, per me, è comunque qualcosa che non serve, tanto lo so bene io come ho giocato, se ho fatto bene o no. Sarò pure presuntuoso, ma ormai la maggior parte delle volte credo di saper leggere le cose del campo meglio di chi si trova a giudicare: non mi fa bene star lì a soffermarmi.

Il tuo rapporto con gli arbitri?
Con gli arbitri all’inizio avevo un rapporto davvero brutto. Ero un rompiscatole, ancora e ancora, anche perché – per me – è un dato di fatto, erano anni quelli in cui subivamo degli arbitraggi che davvero ci penalizzavano, più avanti negli anni non si sono ripetuti. Ricordo che con Spalletti allenatore, noi secondi dietro l’Inter, era persino lampante per me. Così partivo già incazzato, bastava niente perché mi facessi sentire lo stesso, all’incontrario, valeva per loro, per gli arbitri. Ora va meglio, ci si conosce di più, si impara.

L’addio alla Nazionale?
Che vuoi, con quella partita con la Svezia penso si sia chiuso il ciclo di alcuni di noi e del resto quando si fallisce bisogna pur sapere fare un passo indietro, diverso se avessi 25 anni…, ma ne ho 34. Ora sceglieranno un nuovo allenatore, bisognerà vedere, ce ne sono di giocatori forti. Io però la Nazionale l’ho sempre vista come una famiglia e non è insomma che abbia messo un paletto. Se capita, chissà che l’allenatore si fa vivo con me, che ritiene che possa servire, che dica che c’è bisogno, allora… certo che gli anni sono quelli che sono, sempre 34.

Quale sogno ti rimane?
Sì, potrei anche chiamarla utopia, me ne rendo conto, so che sono più vicino a smettere ormai, ma è vincere qualcosa di grande con la Roma. Noi siamo forti, ma so che ce ne sono di più forti di noi, ma non posso smettere di sognare, anche perché questo vorrebbe dire che finirei per allenarmi più piano, mangiare peggio, andare a dormire più tardi. Sogni ne ho coronati tanti e poi ho potuto godere di avere vicino l’esempio di Totti. Ehi, dico Totti e si sa che quando tutto il mondo pensa a Roma, saltano fuori il Colosseo, il Papa e… Totti. Certo, lui è irraggiungibile, però l’essere stato suo vice è stato un altro sogno che ho coronato.

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