Comunque la si pensi, gli articoli di Giancarlo Dotto, non sono mai banali. A torto o ragione, è sempre in grado di generare discussioni offrendo interessanti spunti di riflessione. E questa è sicuramente una dote importante per ogni giornalista. Il calcio a Roma, per Giancarlo Dotto, è finito, sipario. Ecco il suo articolo da leggere tutto d’un fiato:
Il pallone che rotola con la sua incorporata e magnifica ottusità resta l’unica cosa vitale. Ragionando serenamente su quello che sta accadendo di questi tempi tra Olimpico, Trigoria e Formello, la conclusione è solo una: il calcio a Roma è finito. Sipario.
Sulla carogna residua svolazzano a banchettare decine di avvoltoi sotto spoglie diverse, le gole smaniose dei Microfonati, l’esercito sempre più famelico degli Opinionisti della domenica, ma anche del sabato, del lunedì, del martedì e di tutta la settimana, incluse le feste comandate, piccoli, famelici mostri generati dall’insulsa democrazia dei vecchi e nuovi media.
Stadi, radio, televisioni, bar, salotti, trasformati in tribunali del calcio, forche e gogne. L’Isis del tifo uguale boia che molla è a Roma. Il grottesco tocca il suo apice e diventa ridicolo alias sublime nella cosiddetta protesta delle curve.
La Sud e la Nord accomunate nell’allucinazione di credersi “padrone” di uno spazio che probabilmente non esiste più, un simulacro da ciarpame ideologico, da farci al massimo un poster da appendere nella cameretta e smemorare in fretta.
“La Roma siamo noi”, delirano le curve mentre la Roma si estingue per mancanza di curve, agonia piatta, e non sa più chi è. L’idolatria della squadra del cuore soppiantata dall’idolatria di se stessi. Se un tempo la fede calcistica era devozione genuflessa, qua e là attraversata da scariche feroci, contrappassi del troppo amore, oggi è rimasto solo il rumore sordo, il basso continuo dei predatori che beccano la carogna e delle onnipotenze curvaiole. Il calcio a Roma oggi è uno spettacolo ai confini del macabro.
Per i pochi o tanti coglioni che credono ancora nel calcio come festa collettiva, partecipazione, fenomeno surrettizio di fede e di passione, qui, nella sempre più degradata capitale, siamo all’opposto. Una pornografica, aberrante e ammorbante ricerca del tutti contro tutti. Il livore come motore.
Daniele De Rossi, mangiato dalla tensione, che incita i suoi a sparire nel tunnel a fine partita è l’immagine. Sparire. Non resta altro. Non si può giudicare le desolante non partita della Roma contro i modestissimi bielorussi senza tener conto del deserto ostile che ha fatto da cornice.
Dentro la cornice, i movimenti meccanici, impauriti, di dieci ragazzi più un portiere, sufficientemente straniero per fottersene e regalare miracoli. I danni collaterali di questa che anche Rudi Garcia ha chiamato la “negatività” di Roma (ma vedi anche la recente intervista di Astori, ex giallorosso, “il male della Roma è la negatività che filtra nello spogliatoio”) sono incalcolabili. Presto nessuno vorrà più venire in questa città a farsi insultare dalla mattina alla sera da qualunque sfigato. Roma calcistica si è avvitata in una spirale suicida, di cui non si vede la via d’uscita.
Il paradosso è che, in un contesto del genere, si stia pensando a uno stadio nuovo. James Pallotta. Un uomo verticale. A volte sono i paradossi dotati di genio a trasformare la merda in oro. Gli auguriamo sia questo il caso. Di certo, la strada è un Everest. Nel frattempo l’Amerikano Fumantino arriva ogni tanto da Boston e cade nella trappola del “tutti contro tutti”.
Si becca insulti e striscioni da chiunque, del “porco” e del “cane”, persino dal prefetto (la scelta dell’ “iperbole”, piuttosto che un’altra, caro prefetto, confessa il subliminale molto aggressivo del messaggio), molla la sua ruvida replica e se ne torna a Boston, metterà un oceano tra sé e il problema, lasciando sul selciato di Roma morti e feriti, tra impotenti dipendenti e stravaganti controfigure, incapaci e non autorizzati a governare tanto bordello.
Pallotta è uomo fegatoso. Ha lo sfogo in canna. Sfanculare pubblicamente i media ha un suo perché, lo si può capire, ma farlo così serve solo ad alimentare il disastro, oltre che a fornire pericolosi alibi a se stessi. Vie d’uscita? Vederne una oggi è dura. Occorrerebbe l’ottimismo dell’idiozia.
Il consiglio a Pallotta e a Lotito è d’infilarsi l’elmetto, mettersi la sordina e investire tutto quello che hanno e non hanno nel tirare su una squadra davvero vincente. E a Roma, più che altrove, per vincere ci vogliono draghi che sputano fuoco. Solo a partire dalla vittoria si può riaccendere, forse, un’inversione di tendenza e immaginare stadi nuovi.
L’errore pacchiano è stato ieri spacciare la qualificazione come un successo. Negare l’evidenza, nel contesto di una tifoseria, quel che resta, umiliata e ferita, aiuta solo a moltiplicare il malessere. Appellarsi alla ventina di tiri in porta, di cui due terzi tremolanti, flaccidi e scentrati, non prendere atto che si è apparentemente vivi solo per le imprese di un polacco a Roma e di un tedesco a Leverkusen, significa nascondere a se stessi che questa Roma, da qui a tre giorni, a Napoli, rischia l’ennesima vergogna. Essere malati è un problema serio, non prenderne atto è la fine.